di Stefano Iucci
L'Italia "brucia" saperi. Eppure la conoscenza rappresenta uno strumento imprescindibile non solo per provare a uscire dalla crisi, ma per uscirne bene, perché nulla in questa fase di trasformazione che il mondo sta attraversando rimarrà come era prima. E proprio alla "Conoscenza per un nuovo modello di sviluppo" è stata dedicata un'interessante tavola rotonda che si è svolta nel corso del III congresso della FLC CGIL che si sta svolgendo presso la Città della Scienza a Bagnoli (Na).
Pietro Greco, giornalista scientifico, ha ricordato come "in media il 27 per cento dell'economia mondiale si fonda sulla conoscenza, con punte del 40 per cento in alcuni paesi europei e Usa; l'Italia è solo al 23 per cento". Ci vuole, ha aggiunto Greco, una grande azione pubblica. "Nel 1945 un rapporto commissionato da Roosvelt al suo consigliere economico diceva che il mercato non era in grado da solo di produrre innovazione e che l'intervento dello stato è necessario nella ricerca di base che è motore di innovazione". E gli Usa negli anni questo lo hanno fatto.
Ma cosa vuol dire investire in conoscenza e innovazione? Per Benedetto Vertecchi, pedagogista, non bisogna fare l'errore di "un'educazione e un'istruzione sbilanciata sul tempo breve dell'immediato ritorno economico. Per questo anche i dati dell'Ocse vanno presi con le molle. Una società della conoscenza vera si fonda sui tempi lunghi. Nessuna grande civiltà nella storia dell'umanità si è affermata avendo un'idea solo utilitaristica del sapere". Tra l'altro i sistemi fondati su questi meccanismi ipercompetitivi, quelli, essenzialmente, dell'estremo oriente e dei paesi anglosassoni, creano sistemi educativi "nettamente spaccati in due, in una fascia alta e una bassa, cosa che certo non riterrei auspicabile per il nostro paese".
"Questo paese deve investire in ricerca perché non può permettersi di rimanere indietro", ha detto Massimo Marrelli, rettore dell'università Federico II di Napoli. "Ma per competere con gli altri paesi, con colossi come la Cina, occorre soprattutto investire in organizzazione ed efficienza della ricerca, che deve essere tema trasversale. Se non lo facciamo perdiamo".
La politica non è consapevole della drammaticità della situazione della ricerca in Italia": questo l'allarme lanciato da Maria Cristina Pedicchio, presidente dell’Ogs (l'Istituto nazionale di oceanografia e geofisica), che ha ricordato come la fuga dei cervelli costa all'Italia 5 miliardi. "Una situazione insostenibile: formiamo bravissimi ricercatori, ma poi non siamo in grado di trattenerli. Contemporaneamente siamo poco attrattivi rispetto agli studiosi che potrebbero venire da fuori. Una cosa gravissima, perché ormai la competizione si gioca a livello globale proprio sulla capacità di attrarre talenti. Per questo serve un piano straordinario di reclutamento dei ricercatori".
Per Luigi Nicolais, presidente del Cnr, "il mercato globale impone oggi all'impresa di produrre merci di grande qualità. Non possiamo competere abbassando i prezzi. La nostra competitività deve basarsi sulla capacità di riempire di cultura e conoscenza le merci che produciamo. Come nel dopoguerra abbiamo bisogno di una nuova industrializzazione, di stampo diverso rispetto a quella del passato e in cui la novità sta nel fatto che il mondo dei saperi e dell'industria si parlino, dialoghino tra di loro".
La tavola rotonda è stata chiusa da Mimmo Pantaleo, segretario generale della Flc Cgil, che nel suo intervento ha sottolineato come le scelte che stanno maturando in Europa su come uscire dalla crisi sono al ribasso, "si discute solo di risorse, di flessibilità, di riduzione del welfare - ha detto - come via alla competizione. Scelte sbagliate, senza lungimiranza che portano anche alla riduzione degli spazi di democrazia disponibili. In Italia l'ultimo esempio di questa strategia miope è il decreto lavoro, che produce ulteriore precarietà. L'unico modo di uscire da questa impasse è pensare a grandi politiche di sistema che integrino sviluppo, politiche industriali e della conoscenza".